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Con la sentenza del 5 giugno 2024 n. 9653 emessa dal Tribunale civile di Roma sì è affermato il principio di libertà delle manifestazioni del pensiero ed informazione di Utenti delle piattaforme social che forniscono servizi di hosting (archivio e condivisione di dati, contenuti audiovideo e opinioni), soprattutto se l’attività degli Utenti ha una finalità informativa e, ancor di più, se è fatta nell’esercizio delle funzioni giornalistiche, sia in forma individuale sia anche in forma associata o professionale.
Abbiamo avuto modo di comprendere negli anni dell’emergenza sanitaria come quasi tutti i Gestori delle piattaforme social di maggiore diffusione a livello planetario hanno attuato il controllo del pensiero e della informazione libera filtrando i contenuti condivisi dagli Utenti aventi ad oggetto particolari materie sensibili all’interesse delle politiche globali dei governi, e per quel che qui interessa, dell’UE o dei singoli Stati Membri.
Il metodo è semplice, e con il tempo è stato affinato attraverso lo sfruttamento della censura che, si badi, a differenza del “diritto all’informazione e a alla libertà di stampa”, è sempre esistita dalla notte dei tempi; aveva forme e modalità diverse da quelle moderne, ma sostanzialmente è stata lo strumento con cui il potere costituito ha controllato le società che si sono trovati a governare in ogni particolare contesto storico.
Prima di affrontare il tema occorre far luce sulla definizione di censura.
La censura è sostanzialmente una attività di controllo ideologico, etico o morale, preventivo o successivo, esercitato dallo Stato o dalle Chiese, sulle opere del pensiero espresso o da rappresentare in pubblico, o sulle scelte di vita o comunicative di una comunità.
Sino al 1988, almeno in Italia, non era riconosciuto un vero e proprio “diritto all’informazione”, che invece veniva introdotto di nuovo conio grazie alla sentenza 13 luglio 1988 n. 826 della Corte costituzionale con cui si definiva il concetto di pluralismo, inteso come un ineludibile imperativo costituzionale, rafforzato poi dalla sentenza 7 dicembre 1994 n. 420 cui si imponeva allo Stato l’obbligo di garantire il massimo di pluralismo esterno come declinazione della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost.
Prima di allora l’utilizzo della censura era praticamente un esercizio tipico del potere pubblico, che già dai primi dell’800 nel territorio italico era lo strumento per mantenere saldo il controllo della stampa e del pensiero circolante da parte delle monarchie e dei vari Stati pre-unitari.
Si pensi che la “libertà di stampa” prima dell’Unità, in ogni Regno o Granducato italiano, era garantita dalla stampa di un solo un foglio ufficiale, generalmente intitolato Gazzetta, che serviva per la pubblicazione delle leggi ma anche di una cronaca attentamente selezionata, e tale egemonia rimase indiscussa sino a quando cominciarono a circolare le prime correnti liberali, trasfuse nei “fogli clandestini”, stampati dai nuclei carbonari e dai movimenti rivoluzionari sotterranei che avrebbero portato ai moti del 1820-1821 (tra i più noti, L’Illuminismo del 1820; “La Minerva” di Napoli o “La Sentinella subalpina” di Torino, l’”Antologia” di Firenze del 1821; il Corriere Mercantile e L’Indicatore, entrambi di Genova, cui collaborò anche il giovane Giuseppe Mazzini).
Quando le spinte liberali devennero troppo forti, immediatamente il potere, allora incarnato dal Re d’Italia Carlo Alberto di Savoia, nel 1848 stilò il famoso Editto Albertino che definiva la “libertà di stampa” nei seguenti termini: “è istromento d’ogni estesa comunicazione di utili pensieri …e siccome l’uso della libertà cessa dell’essere propizio (utile) allorchè degenera in licenza, quando invece di servire si assoggetta a malaugurate passioni, la correzione degli eccessi deve essere diretta e praticata”.
Le spinte censorie proliferarono anche durante l’epoca post unitaria, da quella giolittiana a quella fascista, dove la censura investì le proiezioni cinematografiche (Legge 785 del 25 giugno 1913; R.D. 532 del 31 maggio 1914; R.D. 9 ottobre 1919, n. 1953; R.D. 22 aprile 1920, n. 531) -lo strumento di comunicazione alle masse che oggi equivale ai social-, che erano subordinate al rispetto di molte prescrizioni (divieto di spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza, del pudore e dei privati cittadini; divieto di spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che potevano turbare i buoni rapporti internazionali; divieto di spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e delle autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; divieto di rappresentazione di operazioni chirurgiche e di fenomeni ipnotici o medianici, scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; divieto di rappresentare delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che potevano costituire esempio o scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male; etc), senza contare il controllo della carta stampata (legge 31 dicembre 1925 n. 2307) con cui si prevedeva la nomina dei Direttori dei giornali da parte del Prefetto e la possibilità per i giornalisti di iscriversi all’Ordine solo se non avessero svolto attività in contrasto con gli interessi della nazione.
La propensione censoria è rimasta intatta nonostante l’avvento dell’era repubblicana e dell’art. 21 Cost., usata sistematicamente come strumento di controllo del consenso per salvaguardare il «bene comune» ed un assetto sociale secondo i desiderata della politica del tempo.
Nei primi trent’anni della Repubblica la censura era prevalentemente di tipo “artistica, sessuale o religiosa”, che allargava o restringeva le proprie maglie a seconda del momento o delle esigenze di un assetto sociale modellato attraverso la RAI e le poche testate giornalistiche “ufficiali” che ricevevano cospicui finanziamenti dallo Stato per seguire precise linee editoriali; moltissimi sono i casi di censura culturale praticata dai controllori dell’informazione e dello spettacolo in Italia, anche in epoca abbastanza recente (famosa è la censura applicata alla canzione dei Nomadi “Dio è morto” o alla canzone del 1969 canata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin “Je t’aime… moi non plus”; famosa è anche la censura praticata nel novembre 2003 da presentatore Pippo Baudo che tagliò le battute più spinose di Daniele Luttazzi, ospite del programma Rai “Cinquanta”, nella puntata dedicata proprio alla censura televisiva, oppure la cancellazione, nell’ottobre 2006, di una puntata del programma Le Iene, che avrebbe dovuto mandare in onda un test antidroga all’interno del Parlamento Italiano; più recentemente ricordiamo la censura del 2013 applicata ad alcuni episodi del cartone animato Neruto o quella della serie animata Peppa Pig poiché considerati offensivi contro i giovani italiani, oppure il taglio di scene omossessuali della pellicola cinematografica “I segreti di Brokeback Mountain” e comunque la censura di tutto ciò che trattava dell’omossessualità).
Premettiamo però che non è possibile parlare di censura quando si parla di attività illegali, cioè di quelle attività dai contenuti illeciti da reprimere: i contenuti illeciti sono quelli che violano le leggi di un ordinamento, o per come definite dalla lettera h) dell’art. 3 Reg. UE del Parlamento e del Consiglio Europeo 19 ottobre 2022 n. 2065 recante le Norme sui Servizi Digitali” (cd. Digital Service Act – D.S.A.) “qualsiasi informazione che non è conforme al diritto dell’Unione o di qualunque Stato membro conforme con il diritto dell’Unione, indipendentemente dalla natura o dall’oggetto specifico di tale diritto”.
Per intenderci, lo stesso punto 12 delle premesse del D.S.A. elenca a titolo esemplificativo alcune delle più comuni attività illegali -in quanto dichiarate tali dall’UE e da quasi tutti gli ordinamenti nazionali, non solo degli Stati membri –: 1) contenuti terroristici; 2) contenuti discriminatori; 3) la pedopornografia; 4) la condivisione illegale di immagini private; 5) il cyberstalking (pedinamento informatico); 6) la pirateria informatica; 7) la violenza esplicita etc.
Questi sono atti ed attività da reprimere in quanto illeciti e illegali, non da censurare.
Ciò premesso, quando si è capito che la diffusione della informazione globale riesce influenzare i processi di elaborazione delle politiche e di indirizzare l’opinione pubblica, si è letteralmente inventato il concetto di “disinformazione” che, in pratica, va a sostituire quella che è stata tradizionalmente la funzione della censura.
All’invenzione è stata affiancata anche una definizione che, naturalmente, appare condivisibile nella descrizione ma, in realtà, malcela il tentativo di istituzionalizzare la censura.
Dunque l’informazione libera deve essere controllata dal potere perché essa è uno strumento di influenza potente, poco costoso e politicamente redditizio. Il modo di controllarla?
Attraverso proprio il concetto di disinformazione, che come nel D.S.A., è ancorata ad una exceptio veritatis, cioè alla falsità oggettiva di una notizia: per disinformazione si intende un’informazione rivelatasi falsa o fuorviante, concepita, presentata e diffusa a scopo di lucro o per ingannare intenzionalmente il pubblico.
Gli ordinamenti hanno cominciato a servirsi dello strumento della disinformazione per indirizzare le politiche, il dibattito sociale e i comportamenti in settori strategici come il cambiamento climatico, la migrazione, la sicurezza pubblica, la salute e la finanza, con campagne propagandistiche tese ad alimentare o sopire, secondo le necessità, le tensioni e la fiducia nelle istituzioni.
Dal 2014 il World Economic Forum (WEF) ha iniziato a sostenere che il «bene comune» richiede la lotta alla disinformazione, sviluppando tecniche e tecnologie tese controllo della circolazione dell’informazione; tra queste le prime “tecniche” furono: a) gli algoritmi, cioè criteri artificiali impiegati per filtrare le informazioni vere o disinformative secondo i parametri impostati; b) la pubblicità digitale, che dipende spesso dal numero di click e premia o identifica i contenuti sensazionalistici e virali; c) i servizi automatizzati (denominati “bot”) che amplificano artificialmente la diffusione della informazione; d) le cosiddette “fabbriche di troll”, cioè falsi profili, privi di un utente reale e a volte orchestrati su vasta scala che svolgono un ruolo di amplificatore si alcune notizie; e) i segnalatori attendibili ( c.d. fact checkers), a volte automatizzati, che si assumono il compito di segnalare cosa sia vero e cosa no, ed in caso censurare ciò che è classificato “disinformazione”.
Questa tecnologia è stata immediatamente recepita dalle politiche delle Istituzioni europee, che dal 2015 hanno iniziato ad insinuarsi nel controllo della libera informazione sui social attraverso un cammino regolatorio intrapreso a braccetto con il WEF e con gli stessi Gestori delle piattaforme social, all’insegna della crociata anti disinformazione e delle «tecniche» per combatterla.
Così nel 2015-2016 veniva istituito un gruppo di cosiddetti esperti, una Task Force -costituita da “esperti appartenenti alle principali multinazionali dell’informazione- con il compito di fotografare lo stato della comunicazione in Europa in relazione alla libertà di espressione ed alle fake news, per tracciare il solco della lotta alla disinformazione.
Dopo un primo report del 2017, nel 2018 la Task Force scriveva il primo “Codice di Buona Condotta”, poi aggiornato nel giugno 2022 con le “policy pro-covid”, ma immediatamente sostituito nell’ottobre 2022 dal D.S.A, che ha recepito l’intera impostazione di lotta alla disinformazione ideata dal WEF, assumendo anche il controllo della libera informazione social attraverso il controllo dei Gestori delle piattaforme social e dei motori di ricerca.
Quanto sopra è confermato dai punti 75-78 della Premessa del D.S.A, in cui si giustifica l’imposizione ai fornitori di piattaforme online o motori di ricerca di grandi dimensioni di obblighi specifici in ragione del fatto che il loro raggio d’azione è capace di “influenzare i destinatari e condizionare il dibattito e l’opinione pubblica, le operazioni economiche e la diffusione al pubblico di informazioni, opinioni e idee”.
Insomma, il DSA (quindi la Commissione europea) ha assunto il controllo del controllore dei servizi di hosting e delle piattaforme on-line, ponendo le condizioni necessarie per l’offerta dei servizi digitali intermediati e procedimentalizzando la censura, fino a quel momento dominata, diciamo così, dalla giungla dei fornitori dei servizi digitali che facevano la voce grossa, accendendo e spegnendo la luce a loro piacimento. Ora non possono più.
In buona sostanza, con il DSA si controlla l’informazione on line attraverso il controllo dei Gestori (ai quali effettivamente esso si rivolge) – soprattutto se di dimensioni molto grandi -, nei confronti dei quali il Regolamento pone obblighi, prescrizioni e ingerenze nell’erogazione dei servizi intermediari digitali.
Ora i Gestori o Fornitori di tali servizi possono continuare a fare “come vogliono” solo se si adeguano alle condizioni imposte dal DSA; dunque una libertà condizionata al rispetto di un particolare orientamento ideologico o politico. Un regime censorio insomma.
Questo è il motivo per il quale il D.S.A. riconosce una esenzione dalle responsabilità del Gestore per i contenuti pubblicati dai destinatari del servizio se, oltre a non agevolare le attività illegali rimuovendo tali contenuti non appena ne venga a conoscenza, rispettino gli obblighi di diligenza ed i protocolli, gli ordini delle autorità nazionali ed europee, predisponendo i rimedi adeguati alle segnalazioni dei segnalatori attendibili e le misure necessarie per far fronte ai “rischi sistemici”, che il D.S.A. ha raggruppato in quattro categorie generali:
1) attività illegali;
2) rischi per la dignità umana, la libertà di espressione e di informazione, la libertà e il pluralismo dei media, il diritto alla vita privata, la privacy, il diritto alla non discriminazione, i diritti del minore e la tutela dei consumatori;
3) rischi di effetti negativi sui processi democratici, sul dibattito civico e sui processi elettorali, nonché sulla sicurezza pubblica;
4) rischi di funzionamento o uso, anche manipolato o disinformato, di piattaforme online di dimensioni molto grandi per la salute pubblica e dei minori, per il benessere fisico e mentale della persona o per la violenza di genere.
Oggi la Commissione Europea ha assunto la gestione effettiva della informazione circolante sui social media, un po’ come farebbe una società controllante verso una controllata nell’ambito di una holding più ampia.
Basta leggere le premesse 96 101, 124 e gli articoli 43, 48 e 61 del D.S.A. per rendersene conto: in tempo di “pace” la Commissione assume poteri esclusivi di vigilanza sulle attività dei Gestori nelle suddette quattro categorie a rischio sistemico, potendo chiedere l’accesso a dati specifici, alle comunicazioni interne ed ai sistemi algoritmici.
Poteri più penetranti la Commissione li assume in “tempo di crisi”: la premessa n.91 e l’art. 36 D.S.A. prevedono che quando si verificano circostanze eccezionali che possano comportare una minaccia grave per la sicurezza pubblica o la salute pubblica nell’Unione o in parti di essa, La Commissione chiede ai prestatori di piattaforme online o motori di ricerca di dimensioni molto grandi: a) Adeguare i processi di moderazione dei contenuti; b) Adeguare le condizioni generali di contratto; c) Adeguare i sistemi algoritmici e i sistemi pubblicitari, e le interfacce on-line; d) Osservare i segnalatori attendibili e promuovere informazioni affidabili; e) Adottare misure di sensibilizzazione.
Si è fatto oramai chiaro come la “disinformazione” viene considerata “diversamente lecita” e, conseguentemente, è stata classificata un “rischio sistemico” al pari delle attività illecite, e grazie a tale artificiosa associazione, risaltano due elementi dal DSA: da una parte l’ipocrisia di voler garantire il pluralismo, la trasparenza e la diversità attraverso il controllo selettivo di ciò che piace o non piace, cioè della disinformazione appunto e, dall’altra, la certificazione della informazione ritenuta “vera” solo in quanto promanata da fonti attendibili.
È vera solo la notizia «verificata» e ciò permette al sistema della disinformazione di operare il controllo globale delle informazioni circolanti sulle piattaforme on-line, censurando notizie ed opinioni contrarie alla verità ufficiale o riconosciuta come tale.
Si codificano così le tecniche di divulgazione strategica, come gli influenzatori (“influencer”) retribuiti e/o i robot, i Bot, le fabbriche di troll e fact checkers (“verificatori di fatti”), diventati ufficialmente parte integrante del valore dei media e requisito essenziale di ogni ecosistema digitale che possa essere ritenuto dai governi “affidabile” e “sano”.
Quanto a questo particolare ultimo strumento di controllo, il “segnalatore attendibile”, significativa è la disciplina che lo introduce: sia la Premessa 61 sia l’art. 22 D.S.A. lo istituiscono attraverso una “qualifica conferita dal coordinatore dei Servizi digitali dello Stato con capacità e competenze particolari nella lotta ai contenuti illegali e di svolgere le proprie attività in modo diligente, accurato e obiettivo”.
Tali enti possono essere pubblici, Agenzie, organizzazioni non governative e organismi privati o semipubblici, pur se l’indicazione sarebbe quella di limitare il numero complessivo di qualifiche di segnalatore attendibile conferite, le quali vengono controllate dal Comitato Europeo per i Servizi Digitali (CESD), finanziato da “contributi volontari” appresi dai bilanci dei Gestori delle piattaforme digitali, che ha la funzione di indirizzare i Coordinatori dei servizi digitali nazionali ed elaborare i protocolli per dare risposta rapida alla disinformazione, divulgando velocemente informazioni affidabili.
Alla fine di questa fiera, la manifestazione del pensiero ed il correlato diritto di stampa, di critica, di dissenso, è libera solo se si assoggetta a determinati canoni di conformità: prova evidente di questo l’abbiamo avuta con l’avvento della pandemia, durante la quale ogni ordinamento nazionale ha usato il sistema della “disinformazione” per difendere o propagandare le proprie politiche, del dissenso sociale, scientifico e giuridico che, se non fosse stato arginato in qualche modo, avrebbe demolito in un attimo la politica sanitaria adottata dall’EU e dagli stati membri.
La copertura dell’attività censoria si è cucita con la veste edulcorata di un fine nobile, cioè “migliorare la trasparenza e la diversità dell’informazione politica e le campagne di sensibilizzazione, oltre che promuovere la credibilità dell’informazione ufficiale fornendo un’indicazione della sua affidabilità ed una certificazione”, e nel nome di tale finalità sarebbe possibile cucire la bocca al dissenso; alle minoranze; ai dissociati; sospendere temporaneamente i servizi o chiudere i profili ritenuti “disinformati”; valutare il contenuto di pubblicazione dell’Utente e vietare nuove pubblicazioni per un tempo determinato; diluire la visibilità della disinformazione o dell’Utente (c.d. shadow banning); incentivare le segnalazioni e rispettare quelle dei verificatori.
Se questa è la fotografia di dinamiche extranazionali, non c’è dubbio che esse si scontrano con l’ordinamento italiano nel momento in cui entrano in contatto con rapporti e diritti dei cittadini soggetti alla legge italiana.
Poiché la “disinformazione” svilisce la forza di legge che ha il contratto tra le parti (art. 1372 c.c.), tale nuovo assetto assunto fuori l’ordinamento nazionale si dovrà necessaiamente scontrare con la tradizionale giurisprudenza (anche costituzionale, viste le predette sentenze del 1988 e del 1994) che ha risolto in senso favorevole all’individuo i casi domestici di censura ed i casi in cui veniva in gioco la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di informazione attiva e passiva.
La magistratura italiana, ad eccezione della parentesi pandemica, ha da sempre garantito la libertà di espressione e di opinione, anche dissenziente, facendo salva la repressione dei soli contenuti illeciti o illegali, anche a prescindere dal contratto quando a richiedere tutela erano i diritti costituzionali della persona, ed anche a prescindere dall’esistenza o meno di condizioni contrattuali specifiche.
Se non vengono lesi i diritti costituzionalmente rilevanti, l’aspetto dell’adempimento contrattuale assume particolare importanza, perché quando si apre una pagina Facebook o un canale YouTube -per citare i più noti- si aderisce ad un contratto per servizi di hosting sulla piattaforma online che permette la visibilità e la condivisione di contenuti con milioni di utenti in tutto il mondo, in riferimento ai quali il Gestore non assume alcuna paternità o responsabilità, ma, semplicemente, riceve dall’utente una licenza globale, non esclusiva, esente da royalty, per l’utilizzo di tali contenuti.
In sostanza il Gestore, anziché richiedere all’utente il pagamento di un canone di abbonamento per i servizi di hosting, trae un vantaggio economico sfruttando i contenuti caricati dall’utente, cioè mostrando prima, durante o dopo la visione di tali contenuti, inserzioni pubblicitarie (da cui trae remunerazione) scelte mediante la profilazione degli Utenti, che ricevono messaggi pubblicitari calibrati sui loro specifici interessi.
Si tratta perciò di un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, ove l’apparente gratuità della prestazione in realtà ha valore economico, sicchè l’inadempimento contrattuale del gestore non può essere eterodiretto o giustificato da richiami a inopinate violazioni di policy interne o di regole della community non preventivamente condivise ed accettate dall’Utente.
Insomma, i limiti connessi al rispetto delle libertà di pensiero e di informazione hanno carattere generale e non comportano a carico del gestore la necessità di alcuna verifica supplementare (Trib. Roma 29.4.20; conf. rg 59264/2019.; Cassazione Sez.U. n. 26972/08; Trib.Nola 15.11.10; Trib.Bari, 30.6.09; Trib.Nocera Inf. 23.2.2005; Trib.Firenze 19.2.13; Cass. Sez. 3 sent. 20106/09; Cass. Sez. 1, n. 5476/1998).
Il Gestore, salvo le attività illecite, non ha alcun potere-dovere di intervenire per censurare contenuti e notizie, anche qualora sia mosso da finalità “educative”, “moralizzatrici” o “difensive” di convinzioni personali o particolari politiche sposate dal Gestore stesso, per la semplice ragione che il Gestore non è editore (e qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte) mentre il rapporto contrattuale che lo lega all’Utente è regolato dal diritto civile, che prevede a carico di quest’ultimo solo l’impegno a rispettare le condizioni di utilizzo sottoscritte, con la conseguenza che il recesso unilaterale del Gestore dovrà essere valutato secondo il modello del contratto per adesione e sempre entro i limiti della violazione dell’ordine pubblico, del buon costume, della buona fede ed al divieto di abuso del diritto (Trib. Roma Coll. XVII Sez, del 29.4.2020; conf. Tar Lazio, sez. I, 10 gennaio 2020, n. 260).
Nel recentissimo caso risolto dal Tribunale di Roma con la sentenza 5 giugno 2024 n. 9653, si è affermato che le cd. norme della community sottoscritte dall’Utente (nella specie una nota emittente radiofonica romana) non prevedevano “che la questione della epidemia da Covid-19” rientrasse nel catalogo delle espresse condizioni legittimanti l’esercizio della sospensione dei servizi contrattuali contemplati dalle Norme stesse, quali ad esempio spam, pratiche ingannevoli, frodi, nudità e contenuti di natura sessuale, sicurezza dei minori, molestie e cyberbullismo.
Ciò era dirimente per il Tribunale, perché a decidere cosa fosse contrattualmente lecito o meno e, di conseguenza, chi fosse inadempiente tra le parti, erano le stesse disposizioni del contratto, in riferimento alle quali è stata parametrata la ragione di chi agisce per l’adempimento, il risarcimento o per la risoluzione per inadempimento -tenuto a provare solo la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza- con la ragione del convenuto resistente cui spetta provare di avere adempiuto esattamente al contratto (cfr. ex multis, Cass. sez. un., 30.10.2001, n. 13533; Cass., 1.12.2003, n. 18315; Cass., 11.10.2003, n. 15249; Cass., 7.3.2006, n. 4867).
Ovviamente l’adempimento del Gestore consiste nel permettere all’utente di operare nel proprio account o nel proprio canale liberamente, sempre nel rispetto delle condizioni del contratto volontariamente accettate e delle leggi che individuano ciò che è illecito e, quindi, proibito, a prescindere dal contratto.
Il Giudice capitolino precisava che, “sebbene la convenuta abbia prodotto in giudizio una pagina web contenente un elenco per materia della norme della community, tra le quali figurano anche le Norme sulla disinformazione in ambito medico relativamente al Covid-19 … è del tutto evidente che tali regole siano state introdotte dopo la conclusione del contratto tra le parti, cioè dopo il manifestarsi della nota epidemia, sicché su di esse non può essersi formata quella concorde volontà negoziale dei contraenti che è invece indispensabile affinché le disposizioni contrattuali possano essere efficaci e avere forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.)”.
E siccome in astratto si potrebbe pensare che, in presenza di particolari condizioni in un preciso contesto storico, sia consentito al Gestore di modificare nel corso del tempo le regole sui contenuti da caricare in un determinato canale od account, le modifiche contrattuali da apportare al contratto sulla adesione a tali specifiche regole della community, per poterle ritenere vincolanti, avrebbero dovuto essere oggetto di specifica comunicazione scritta dal Gestore all’Utente prima della loro applicazione, cosa che nella specie non risultava essere stata effettuata.
In definitiva, quanto fatto dai Gestori delle principali piattaforme social e dei principali motori di ricerca nella aggressiva e pervicace condotta di salvaguardare la particolare politica sanitaria Covid19, sfruttando la propria posizione dominante nel contratto per reprimere il pensiero critico, l’opinione opposta, la preoccupazione, la conoscenza o l’analisi sanitaria nociva alla policy interna, è stato considerato dalla decisione in commento come una condotta contrattuale abusiva, con la quale è stato modificato unilateralmente un contratto avente ad oggetto una attività lecita dell’Utente (cioè la divulgazione di opinioni sull’epidemia contrarie o scettiche rispetto alle indicazioni delle autorità sanitarie), privandolo di alcuni servizi e funzionalità (la monetizzazione nel caso in esame) senza alcuna ragione, autorizzazione o disposizione contrattuale che lo permettesse, rendendosi perciò l’autore inadempiente e, per l’effetto, destinatario della condanna di ripristinare il servizio e risarcire il danno.
Si ricordi che i Gestori delle piattaforme social ed i Fornitori dei servizi digitali non sono filantropi, ma sono aziende private (per lo più colossi multinazionali) che hanno scopo di lucro, che fanno commercio, e lo fanno con i dati dei propri Utenti, perciò se i Tribunali italiani si faranno attrarre dalle sirene dell’accondiscendenza al potere, alla morale ed alla ideologia, permettendo nel nome di esse la violazione di ogni tipo di vincolo contrattuale e diritto costituzionale, allora anche su questi temi possiamo dire che la Costituzione della Repubblica italiana è stata abrogata di fatto.