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Un giudice del lavoro che tutela il Lavoro di questi tempi può sembrare un’anomalia del sistema, ma invece costituisce il ripristino della legalità formale e sostanziale nonché un ulteriore segno di consapevolezza e coraggio della magistratura di merito nel chiamare le cose con il loro nome, nel comprendere la realtà e nel ripescare quell’approccio costituzionalmente orientato oramai in disuso durante la tirannia del diritto emergenziale, capace di derogare addirittura ai diritti naturali ed ai principi fondamentali della nostra Carta repubblicana.
Questa volta però si tratta di un denotatore epocale, perché la sentenza del 13 settembre 2023 n. 136 del Tribunale del Lavoro de L’Aquila – giudice Dr. Giulio Cruciani –, nel dichiarare l’illegittimità dell’istituto della sospensione dal lavoro (e dalla retribuzione) per assenza della vaccinazione obbligatoria anti Sars-Cov-2 dei lavoratori ultracinquantenni ex art. 4, quinquies, comma 4, dl. 44/21, è destinata a far saltare il banco.
Con questa decisione si infatti è aperta un’altra breccia in una delle misure – la principale probabilmente – che ha costretto la popolazione ad inocularsi farmaci genici in corso di sperimentazione ed autorizzati provvisoriamente “sulla base di dati meno completi” (Regolamento EU n. 507/2006), ossia la “sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” in caso di violazione o inadempimento dell’obbligo imposto dalla legge di vaccinarsi per prevenire l’infezione dal virus Sars-Cov-2.
Il Giudice del Lavoro lo ha premesso: “non verrà valutata la legittimità dell’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2, bensì la legittimità, nel caso concreto, della sospensione dal lavoro per assenza della vaccinazione obbligatoria”.
Quindi il Giudice non entrava nel merito dell’efficacia o meno dei vaccini anti covid-19 per la salute pubblica o della legittimità o meno dell’obbligo vaccinale, perché il tema del decidere era un altro, e precisamente se la “sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” sia stata un mezzo legittimo con cui la norma di legge ha ottenuto il proprio rispetto, e se con tale forza sia stata legittimamente o meno applicata dall’intero palinsesto sanzionatorio, non solo quindi dall’art. 4-quinquies dl. 44/21 oggetto di giudizio (relativo ai lavoratori ultracinquantenni), ma anche dagli artt. 4, 4-bis e 4-ter e poi 4-quater del dl. 44/21, nella distorta interpretazione (ideologicamente orientata) che per tutelare la salute pubblica si doveva imporre l’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 a determinate categorie di lavoratori.
La sentenza in commento accertava e dichiarava che “non vi è alcuna norma di legge – né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione ex art. 3 Cost. – che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro … ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio”.
Semplicissimo.
Lo Stato italiano si fonda sul lavoro (art. 1 Cost.), e su questo si fonda non solo la dignità sociale e lavorativa, ma anche la dignità personale dell’essere umano che vuole mantenersi con le proprie forze.
“Il reddito da lavoro costituisce per lo più il reddito di sussistenza, senza di esso si scivola nel degrado e nella dipendenza” scrive il giudice Cruciani.
E se la dignità è il limite invalicabile all’obbligatorietà di qualsiasi trattamento sanitario obbligatorio (art. 32 Cost.), allora la vaccinazione obbligatoria, qualsiasi essa sia, non poteva essere imposta imponendo l’obbedienza a mezzo della privazione del lavoro – e quindi della dignità umana – senza violare apertamente l’art. 32 Cost..
Il ragionamento del Giudice del Lavoro è ineccepibile, in particolare nella critica mossa all’opinione diffusa – ripetuta oramai meccanicamente da laqualunque – secondo cui la ragione per la quale si è imposto al lavoratore l’assunzione del vaccino anti Covid-19 risiedeva nel fine espresso che egli, nel luogo di lavoro, non costituisse un rischio per i colleghi o per i terzi, a differenza invece del lavoratore non vaccinato, che avrebbe esposto al rischio di infezione da Sars-CoV-2 praticamente tutti coloro con i quali sarebbe entrato in contatto nei luoghi di lavoro (meno che i vaccinati ovviamente).
La decisione in commento respingeva anche l’argomento – anch’esso tanto diffuso quanto irrilevante – della supposta idoneità dei vaccini a prevenire le forme acute della malattia Cosvid-19 conseguente all’infezione dal virus Sars-Cov-2, che è tutt’altra questione, non di interesse per il thema decidendum del Tribunale aquilano, che accedeva, invece, alla capacità o meno di tali vaccini a prevenire il contagio dal virus Sars-Cov-2 come condizione minima necessaria all’applicazione della misura della “sospensione dal lavoro e dalla retribuzione” nei confronti di lavoratori inadempienti all’obbligo legale.
La prevenzione dal contagio dal virus Sars-Cov-2 è stata il fine che la legge intendeva raggiungere con la vaccinazione obbligatoria, mentre la cura dalle forme acute della malattia Covid-19 è altro aspetto, diverso ontologicamente dal primo, non rientrante nell’alveo normativo della vaccinazione obbligatoria per la prevenzione dal virus Sars-Cov-2.
Dunque la finalità preventiva dall’infezione costituiva il fondamento e, al tempo stesso, il limite di applicazione di tali norme imperative, che letteralmente nel corpo della disposizione imponevano la vaccinazione per prevenire l’infezione dal virus Sars-Cov-2.
E che il lavoratore vaccinato fosse “sicuro” ed il non vaccinato invece fosse “pericoloso” si atteggiava a mera presunzione relativa, nello specifico ad una presunzione legale, non certo assoluta, perché è stata smentita dalla prova contraria: i vaccinati con i farmaci oggi a disposizione si infettano ed infettano gli altri, al pari dei soggetti non vaccinati.
Le evidenze scientifiche e la comune esperienza (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) hanno permesso di dimostrare l’erroneità delle presunzioni normative in tema di immunizzazione dal virus Sars-Cov-2 usando i farmaci anti covid-19 che, a questo punto, hanno dato luogo ad una ingiustificata discriminazione in base alle condizioni e alle opinioni personali (art. 3 Cost.), perché si è tolto il lavoro e la retribuzione a centinaia di migliaia di persone inutilmente, senza motivo, solo per la violazione impossibile di una norma che se fosse stata osservata non avrebbe apportato alcun beneficio al fine di prevenire i contagi da Sars-Cov-2 sul luogo di lavoro.
Il Giudice de L’Aquila ha preso atto che la contagiosità dei vaccinati costituisce un fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c. (che non richiede quindi una perizia per accertarne la fondatezza) e che, per l’effetto, la sospensione dei lavoratori, giustificata dal fatto che essi non si siano vaccinati, sia stata del tutto priva di fondamento.
La sentenza in commento richiamava sull’argomento quell’indirizzo giurisprudenziale di merito (Trib. Firenze, II Sezione Civile, ordinanza del 31 ottobre 2022) che ha qualificato come fatto notorio la inidoneità dei vaccini in commercio quali strumenti di prevenzione del contagio, “trattandosi di un fatto che appartiene al normale patrimonio di conoscenze della comunità sociale, in un dato tempo e in un dato luogo, e che può essere, perciò, conosciuto, nella sua distinta identità storica, dal giudice senza la necessità di uno specifico accertamento, escludendo la necessità di ulteriori verifiche in punto di prova”.
In effetti “i contagi non si sono mai interrotti nonostante la campagna vaccinale pluriennale; ciò è tanto diffuso e conosciuto nella percezione comune di questo momento storico da essere fatto notorio, perché tutti sanno che i vaccini non impediscono il contagio; dunque vaccinati e non vaccinati sono vettori virali indistintamente; trovandosi in situazioni identiche non è pensabile un trattamento discriminatorio dei non vaccinati” (così Trib. Firenze cit.).
La conclusione istruttoria cui perveniva la decisione in commento è altrettanto ineccepibile quanto la premessa da cui partiva: se dalla notorietà di un fatto discende la non necessità di un accertamento peritale, “l’audizione di esperti di chiara fama andrebbe di converso disposta in tutti quei casi in cui l’evidenza del fatto notorio venisse messa in discussione, non bastando certamente, al riguardo, apodittici richiami alle prese di posizione delle “autorità istituzionali nazionali ed europee, preposte al settore”.
L’intero ragionamento del Giudice del Lavoro de L’Aquila si apprezza soprattutto nell’ottica della piena autonomia del magistrato dalle pressioni politiche e istituzionali che hanno inquinato in questi anni i giudizi aventi ad oggetto la materia sanitaria ed emergenziale, compreso quelli famigerati della Corte costituzionale conclusi con le controverse sentenze 14, 15 e 16 del 2023.
Il Tribunale, nel premettere che le sentenze di inammissibilità e di infondatezza della Consulta – quali sono state in parte le predette sentenze 14, 15 e 16 del 2023 – non hanno alcun effetto vincolante, a livello interpretativo, per i giudici di merito, e che l’unico effetto processuale di questo tipo di decisioni è quello descritto dall’art 24, l. 11 marzo 1953, n. 87, in base al quale “l’eccezione [ndr. di incostituzionalità] può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo” (perciò non dallo stesso giudice nel corso del medesimo grado di giudizio), ribadiva che la funzione nomofilattica tesa ad assicurare l’esatta osservanza della legge, la sua uniforme interpretazione e l’unità del diritto oggettivo nazionale, spetti solo ed esclusivamente alla Corte di Cassazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 65, comma 1, R.D. 30 gennaio 1941 n. 12, e non già anche alla Corte costituzionale.
Quindi, dopo aver passato in rassegna con dovizia e precisione le parti delle dette sentenze costituzionali che operavano una confusione terminologica e concettuale inaccettabile nell’equiparare il virus Sars-Cov-2 alla malattia Covid-19 e che si limitavano ad un acritico rinvio alle convinzioni indimostrate dell’ISS, del Ministero della salute e dell’AIFA, “questo Giudice intende discostarsi da tale interpretazione [ndr corte costituzionale nelle sentenze 14 e 15 del 2023], rilevando che i vaccini per il Covid-19 in commercio non sono strumenti atti in alcun modo a prevenire il contagio”.
Il Tribunale del Lavoro de L’Aquila, in autonomia e indipendenza dissentiva, alla luce delle evidenze scientifiche oramai notorie, dalla tecnica di rinvio fideistico operato dalla Corte costituzionale ad una affermazione dell’ISS, secondo cui “[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2” ed «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%”, perché – come più volte ripetuto – l’idoneità dei vaccini ad immunizzare o prevenire il contagio non solo è chiaramente smentita dalla realtà dei fatti conosciuta da tutti ma, soprattutto, dalle attuali conoscenze mediche: sono le stesse case produttrici dei vaccini a confessare l’inefficacia immunizzante dei loro prodotti farmaceutici, sia attraverso le dichiarazioni rese ai propri azionisti dall’AD di Pfizer A. Bourla, sia dal portavoce del responsabile della Pfizer J. Small davanti al Parlamento Europeo e sia anche dalle indicazioni presenti nei fogli illustrativi dei vaccini in commercio, che non riportano quale effetto la capacità di prevenzione dall’infezione da Sars-CoV-2 (ma riportano quello di limitare gli effetti dannosi della malattia Covid-19).
L’inevitabile conclusione della illegittimità delle sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione quale conseguenza dell’inosservanza dell’obbligo legale di assumere il vaccino anti covid-19, ha portato alla altrettanto scontata condanna del datore di lavoro – nel caso di specie la Regione Abruzzo – al pagamento delle retribuzioni di cui il lavoratore è stato privato per il periodo di sospensione.
Ma non solo.
La sentenza del Tribunale de L’Aquila, oltre alla condanna del datore di lavoro alle spese di lite, ha riconosciuto il danno biologico temporaneo subito dal lavoratore alla luce dell’art. 5, l. 57/01 per il forte stress psicologico causato dalla privazione della fonte di sostentamento e dall’assoggettamento della persona in una condizione discriminatoria rispetto ai colleghi che hanno continuato a lavorare solo per aver assunto una sostanza inutile allo scopo preventivo.
Anche sotto quest’ultimo profilo la sentenza in commento è destinata ad essere un precedente deflagrante per i datori lavoro che hanno ignorato le debolezze altrui in spregio alle più comuni regole della logica, del diritto e della civiltà costituzionale caratterizzanti l’interpretazione e l’applicazione delle norme e del rapporto di lavoro.