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La sentenza di non luogo a procedere del 27 aprile 2023 emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale Militare di Napoli –Dr. Andrea Cruciani – offre numerosi spunti di riflessione di grande interesse anche per la giurisdizione ordinaria – penale, amministrativa e civile – allorquando si trovi a giudicare i medesimi fatti materiali commessi da soggetti che non rivestano la qualità di militare in servizio.
Nella vicenda processuale si contestava la disobbedienza di un sottoposto appartenente al 1° Reggimento San Marco all’ordine del superiore di indossare la mascherina FFP2 negli ambienti di lavoro al chiuso, oltre che la diserzione per essere egli rimasto assente ingiustificato dal luogo di lavoro per più di cinque giorni consecutivi in periodi diversi.
Nessun fatto storico veniva messo in discussione, e correttamente veniva ricostruita la premessa normativa di riferimento, tanto che la disamina del giudice sul punto risultava semplice e lineare: l’ordine del superiore di indossare la mascherina era inesistente per carenza assoluta di potere.
Esso era giuridicamente inesistente poiché “l’ordine intimante un comportamento già imposto dalla norma penale, è da questi assorbito” (Cass. 13 dicembre 1991, Sassola) e non costituisce quindi un “ordine” in senso stretto, quanto piuttosto un “invito” ad adempiere obblighi già derivanti, in via espressa e diretta, dalla Legge, e da quest’ultima già sanzionato in caso di inosservanza.
Così accade ad esempio nel caso di un ordine di non fumare, atteso che l’obbligo di non fumare nei luoghi di lavoro è disciplinato (e sanzionato) dall’art. 51 Legge 3/2003 e, perciò, questo “ordine” sarebbe solo apparente (quindi inesistente), in realtà una mera “esortazione del datore di lavoro al rispetto degli obblighi derivanti da disposizione di legge, i quali già prevedono un sistema sanzionatorio – di natura amministrativa – per il caso di mancato rispetto” (T.M. NA cit. pag. 7).
Non solo, il giudice partenopeo rilevava anche come, all’epoca dei fatti (il 2 maggio 2022), nei luoghi di lavoro non era più vigente alcun “obbligo” di indossare la mascherina, ma semplicemente una “raccomandazione” a norma dell’art. 1 dell’ordinanza 28 aprile 2022 del Ministero della Salute “di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie in tutti i luoghi al chiuso pubblici o aperti al pubblico”.
Con queste premesse il Tribunale giungeva alla conclusione che l’ordine non era tale, e che era stato emesso da un organo privo della competenza ad esercitare un potere in aperto contrasto con la normativa sovraordinata contraria, che invece escludeva un dovere in tal senso.
In altri termini, un siffatto “ordine” non doveva essere osservato e poteva essere legittimamente disobbedito.
La parte di vero interesse della decisione in commento, però, risiede nella motivazione addotta a sostegno dell’accertata inoffensività in concreto della violazione di un qualsiasi ordine (legale, amministrativo o gerarchico) di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie, sia che l’obbligato vi sia tenuto in virtù di una disposizione di servizio imposta da un corpo, un ente o dal rapporto di pubblico impiego, sia anche nel caso che il destinatario dell’ordine sia il privato cittadino nel godimento dei propri diritti civili, sociali o lavorativi di rilievo costituzionale.
Il principio di offensività costituisce la declinazione pratica di una concezione liberale del diritto penale nelle scelte punitive, che in un sistema democratico sono riservate alla esclusiva competenza funzionale della Legge, unica in grado di selezionare i divieti e raggiungere la massima utilità di prevenzione e repressione delle sole violazioni effettivamente lesive di determinati beni giuridici.
La sanzione, penale o amministrativa che sia, sconta la necessità di “economia” delle proibizioni, e perciò andranno scartati gli orientamenti rigorosi su fatti inoffensivi, la cui applicazione creerebbe altrimenti una ingiustizia sostanziale ed una quantità immensa di pastoie e impedimenti eccessivi.
Proprio perché l’intervento sanzionatorio costituisce una tecnica penetrante di controllo sociale lesiva della libertà dei cittadini, il principio di offensività esige che alla sanzione si ricorra soltanto come un estremo rimedio contro le condotte concretamente offensive dei beni che lo Stato vuole tutelare.
Si tratta di un principio che accomuna l’intera cultura penale illuministica (Hobbes, Locke, Beccaria, Hommel) e che identifica nel danno arrecato ad altri le ragioni, i criteri e le misure delle proibizioni e delle pene.
Il principio di offensività ha dunque l’onere di dimostrare nei confronti della scienza e della pratica giudica la giustificazione del quando e del cosa proibire.
A livello di legge penale, il principio di offensività è manifestato dal combinato disposto degli artt. 43 e 49 c.p. che, insieme, statuiscono che l’esistenza di un illecito dipende dal verificarsi di un evento dannoso o pericoloso, perché ove tale evento dannoso o pericoloso risulti escluso in natura o impossibile fisicamente, non potrà essere inflitta alcuna pena.
Il nostro ordinamento accoglie dunque una concezione realistica dell’illecito, nel senso che non può essere reputato come tale il fatto che non leda o, almeno, non ponga in pericolo un bene o un interesse altrui, privato o pubblico: si tratta del principio di necessaria offensività del fatto che opera ininterrottamente dal momento dell’astratta previsione normativa a quello dell’applicazione concreta da parte del giudice, cui compete il compito di impedire, con prudente apprezzamento della lesività in concreto, un’arbitraria e illegittima dilatazione della sfera dei fatti punibili.
Da quanto sopra il Tribunale militare di Napoli, sulla scia del proprio precedente del 10 marzo 2023 (sentenza e commento qui https://avvocatiliberi.legal/un-giudice-libero-commento-alla-sentenza-10-3-2023-del-tribunale-militare-di-napoli/) ha tratto la conclusione che la disobbedienza all’obbligo di indossare la mascherina nei luoghi di lavoro non è punibile per carenza di offensività della condotta, posto che non risulta provato che tale comportamento “abbia ingenerato un rischio incrementale per la salute” degli altri.
L’iter motivazionale della sentenza in commento, alla luce di tali presupposti, non poteva prescindere da una verifica giudiziale della “prova scientifica” e del rapporto tra risultati scientifici, che non è stato dato per scontato dal Giudice partenopeo con un pigro rinvio al pensiero dominante veicolato tramite f.a.q. o protocolli ufficiali pubblicati su siti istituzionali di organismi presi a riferimento ufficiale, poiché il Giudice si è trovato innanzi alla dialettica contrapposta e all’evoluzione delle conoscenze tra gli stessi scienziati che si confrontano su un fenomeno ignoto o non del tutto esplorato, cui sono seguite ipotesi alternative e, per certi versi, contrastanti.
Il Tribunale partenopeo non rimaneva passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, e perciò verificava le ipotesi alternative – anche nella veste di peritus peritorum – con un approccio “critico e dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni” (tra le tante: Cass.Pen. IV Sez, 30.9.2008; Cass.Pen. IV Sez, 29.1.2013, Cantore).
La ricerca scientifica dimostrativa dell’esistenza di un fondamento epidemiologico per legittimare l’obbligo di utilizzare la mascherina per la prevenzione del virus Sars-Cov.2, deve passare necessariamente al vaglio della c.d. “integrità delle intenzioni”, ossia dalla ponderazione degli “interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali o occulte tra membri di una comunità scientifica, la complessità e la drammaticità di alcuni grandi eventi, la difficoltà di esaminare i fatti con uno sguardo neutro da un punto di vista dei valori, la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche, addirittura in qualche caso, la manipolazione dei dati, la presenza di pseudoscienza in realtà priva di necessari connotati di rigore, gli interessi dei committenti del ricerche aumentano o inquinano i potenziali interessi economici e politici coinvolti” (Cass.Pen. IV Sez, 13.12.2010 n. 43786, Cozzini).
Ecco perché, già in partenza, l’imposizione di un obbligo in capo ai consociati di indossare la mascherina o di sottoporsi obbligatoriamente a trattamenti sanitari in genere esige un attento, rigoroso e stringente controllo giudiziale sui risultati della sottesa ricerca scientifica.
Sempre dal punto di vista della “integrità delle intenzioni” il Giudice partenopeo rilevava come la stessa O.M.S., autrice di diverse “linee guida” in materia, ha riconosciuto che in larga misura tali studi scientifici sono finanziati da enti pubblici, organizzazioni internazionali e fondazioni private (quali la Bill & Melinda Gates Foundation), che hanno tra i dichiarati scopi primari quello di sviluppare, diffondere e commercializzare misure, dispositivi e farmaci a livello globale (http://www.who.int/about/funding/invest-in-who/investment-case-2.0/current-state).
Questo aspetto è di importante rilievo nel processo di valutazione perché impatta sull’affidabilità e sul grado di indipendenza dell’OMS, ma soprattutto rileva sotto il profilo della “attendibilità metodologica”, poiché il dato incontrovertibile sul quale l’intera comunità scientifica concorda nella determinazione dell’efficacia preventiva del contagio dall’infezione dal Sars.Cov.2 tramite utilizzo delle mascherine può essere sintetizzato nella consapevolezza di “sapere di non sapere”.
Infatti, l’individuazione della legge scientifica di copertura sul collegamento tra la condotta (indossare la mascherina) e l’evento (prevenzione del contagio) presuppone una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia con l’ausilio di esperti qualificate ed indipendenti (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 18933 del 27/02/2014 Ud. (dep. 08/05/2014) Rv. 262139 – 01) e qualora sussistano tesi contrapposte, il giudice, previa valutazione dell’affidabilità metodologica e dell’integrità delle intenzioni degli esperti, deve accertare “la sussistenza di una soluzione sufficientemente affidabile, costituita da una metateoria frutto di una ponderata valutazione delle differenti rappresentazioni scientifiche del problema, in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Altrimenti potendo concludere per l’impossibilità di addivenire ad una conclusione in termini di certezza processuale”. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9831 del 15/12/2015 Ud. (dep. 09/03/2016) Rv. 267567 – 01).
Il Giudice militare, nel caso delle mascherine, ha ritenuto che “non è provato, non essendosi formato al riguardo un sia pur minimo consenso nella comunità scientifica che l’utilizzo delle mascherine contribuisca alla prevenzione del contagio da Sarscov2, l’incertezza scientifica sull’efficacia dei fini di prevenzione del contagio nell’uso della mascherina in comunità è un dato che risulta palese da una valutazione epistemologica che può essere condotta da questo giudice anche solo con un ragionamento logico induttivo, senza quindi la necessità di un contributo peritale” (Trib. Milit. Napoli cit.).
Il limite probatorio corrisponde ad un limite conoscitivo, impossibile da colmare attraverso la perizia d’ufficio, incapace in assoluto di accertare se, ed in quale grado, l’utilizzo della mascherina contribuisca al contenimento della diffusione del Virus Sars-Cov 2, poiché la comunità scientifica non è ancora giunta, pur a fronte di numerosi studi avviati, ad alcuna conclusione sufficientemente affidabile in proposito, di talché non può ragionevolmente ritenersi che un tale accertamento tecnico in giudizio – che peraltro potrebbe durare anni – sia compatibile con le dinamiche processuali, per costi e tempistiche, anche in termini di proporzionalità rispetto al sacrificio imposto dei diritti e della inidoneità della sede giudiziale a luogo deputato alla formazione del sapere scientifico – che è diverso processo di estrema complessità – di imprevedibile proiezione temporale e di necessaria dimensione universale.
La conoscenza scientifica, invero, si forma fuori dal processo penale, e deve giungere nel giudizio attraverso contributi aliunde formati e già riconosciuti, con un giudice cui spetta il compito di verificare l’eventuale esistenza di una condivisa legge di copertura, “non essendo necessario per altro verso una perizia deducente che possa orientare il giudice nella comprensione dei risultati scientifici già accertati, atteso che, sotto tale aspetto, l’unico dato che emerge dalla comunità scientifica è quello, come detto, “di sapere di non sapere” (Trib. Milit. Napoli cit.)
A fronte di un messaggio ufficiale diffuso in via globale con norme, decreti, linee guida e raccomandazioni sull’uso indispensabile delle mascherine, non esistono ad oggi evidenze scientifiche o statistiche che dimostrino come l’utilizzo delle mascherine di comunità abbiano comportato una diminuzione dei contagi rispetto agli ordinamenti che tale misura non hanno adottato.
Anzi, il Tribunale Militare di Napoli faceva riferimento ad uno studio pubblicato dall’OMS già nel dicembre 2020 in cui si rilevava l’assenza di un supporto scientifico sull’efficacia dell’utilizzo delle mascherine come strumento di riduzione della trasmissione del virus (Mask use in the context of COVID-19: interim guidance, 1 December 2020. World Health Organization https://apps.who.int/iris/handle/10665/337199), mentre nell’aprile del 2020 il Centro Europeo per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie Infettive (ECDC https://www.ecdc.europa.eu/sites/default/files/documents/Use%20of%20face%20masks%20in%20the%20community_IT.pdf) si esprimeva in termini analoghi di incertezza scientifica, ribadendo successivamente nel febbraio 2022 lo scarso livello di base scientifica, tanto che non vi sarebbe alcun fondamento nell’uso obbligatorio della mascherina in comunità quale mezzo di prevenzione della trasmissione del virus Sars-Cov.2 (https://www.ecdc.europa.eu/en/publications-data/using-face-masks-community-reducing-covid-19-transmission).
A queste evidenze si sono sommati, nel corso del tempo, numerosi altri contributi della comunità scientifica che dubitano dell’utilità delle mascherine come misura idonea alla prevenzione del virus Sars-Cov.2 e che evidenziano gli effetti collaterali per uso improprio del dispositivo, tra i quali si richiamano i più accreditati:
Pubblicazione agosto 2021 su International Journal of Environmental Research and Public Health (https://www.mdpi.com/1660-4601/18/8/4344 in italiano https://it.medicusante.com/_files/ugd/d48835_3b6bdd5309e146ef9edb1e90e466b52d.pdf);
Pubblicazione settembre 2021 sulla rivista Science (https://www.science.org/doi/10.1126/science.abg6296);
Pubblicazione novembre 2021 su Nature (https://www.nature.com/articles/s41598-022-06605-w#MOESM1);
Pubblicato del 2021 su AIMS Public Health (http://www.aimspress.com/article/id/619dcfdcba35de0683e3c147);
Pubblicazione febbraio 2022 su Science Direct (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0048969721035774);
Pubblicazione ottobre 2021 sulla rivista Medicine (https://journals.lww.com/md-journal/Fulltext/2022/02180/The_Foegen_effect__A_mechanism_by_which_facemasks.60.aspx),
Pubblicazione gennaio 2023 sulla rivista scientifica Cochrane (https://www.cochranelibrary.com/cdsr/doi/10.1002/14651858.CD006207.pub6/full?utm_source=substack&utm_medium=email).
L’assenza di uniformità tecnico-scientifica ed i rilievi mossi dalle evidenze alla inadeguatezza funzionale dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie al fine di evitare il contagio dal virus Sars-Cov.2, non assorbe peraltro la potenziale pericolosità per la salute individuale dato dall’uso prolungato delle mascherine.
Nei citati documenti dell’OMS e dell’ECDC, oltre che in quasi tutti gli studi sopra menzionati, si è evidenziato come la composizione delle mascherine, la rimozione impropria della mascherina, la manipolazione di una maschera contaminata o la maggiore tendenza a toccare il viso mentre si indossa una maschera possono effettivamente aumentare il rischio di trasmissione del virus, senza considerare gli effetti avversi “propri” conseguenti all’uso prolungato della mascherina, quali l’affaticamento termico, le cefalee, le reazioni dermatologiche, respiratorie, psicologiche e comunicative, oltre al falso senso di sicurezza ingenerato nei soggetti che la utilizzano, che allenta l’attenzione sul rispetto di altre misure sicuramente efficaci.
L’efficacia delle mascherine, dunque, non è adeguatamente sorretta da supporto scientifico e, comunque, sarebbe imprudente l’imposizione alla popolazione indossare in maniera prolungata il dispositivo in questione, nella quasi certezza di una non corretta gestione della stessa e in presenza di non trascurabili rischi per la salute individuale.
Con riferimento alla analoga fattispecie di utilizzo prolungato della mascherina per la popolazione fragile (nella specie, i bambini), il Consiglio di Stato si pronunciava nei seguenti termini: “non sembrano esistere, a livello di dati statistici – che, ove sussistano, dovrebbero essere acquisiti agli atti, né a livello di indirizzi operativi pratici per le singole classi – raccomandazioni per un monitoraggio ove possibile costante e immediato per gli scolari che diano segno di affaticamento, del livello di ossigenazione individuale dopo l’uso prolungato della mascherina; e ciò, sia perché esistono in commercio apparecchi di misurazione di semplicissima utilizzabilità per ciascun maestro, sia perché tale attività costituirebbe forse una utile base statistica per contribuire alle valutazioni scientifiche degli organi preposti. Ciò potrebbe anche consentire una valutazione esplicita, delle autorità scientifiche, su uno dei punti di cui al ricorso, relativo alla ragionevolezza dell’uso obbligatorio della mascherina anche “al banco” e con distanziamento adeguato” (Cons. stato, Sez. III, decreto n. 26 novembre 2020, n. 6795).
Non potrebbe quindi neppure sostenersi che l’utilizzo delle mascherine da parte di soggetti sani rientri tra quelle misure che seguono la logica della precauzione, come affermato già nei protocolli delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Saars-Cov.2.
Il principio di precauzione non trova espressa enunciazione nella nostra Costituzione, ma figura piuttosto a livello normativo, in ambito europeo, nell’articolo 191, par.2, TFUE in materia di tutela ambientale, mentre in ambito nazionale negli articoli 3 ter e 301 del decreto legislativo 3 aprile 2006 numero 152 (codice dell’ambiente), che grazie alla giurisprudenza comunitaria (CGUE, Grande Sezione, 1.10.2019, caso Mattew Blaze, C- 616/17) e nazionale del Consiglio di Stato (sentenza 2964/2020) è stato esteso anche all’ambito della salute.
In base a tale principio generale le Autorità devono adottare tutti i provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la salute pubblica, per la salute individuale e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse a tali valori sugli altri interessi concorrenti.
Il principio di precauzione viene quindi tradizionalmente invocato quando è necessario un intervento urgente di fronte a possibili pericoli per la salute umana, animale o vegetale, ovvero per la protezione dell’ambiente, nel caso in cui i dati scientifici non consentono una valutazione completa del rischio, ad esempio, impedendo la distribuzione di prodotti che possono essere pericolosi per la salute o ritirandoli dal mercato; tuttavia il Giudice militare, nella decisione in commento, ha precisato come l’incertezza scientifica posta base dell’applicazione del principio di precauzione deve fare necessariamente riferimento al rischio o al danno per la salute e non già alle misure per il contenimento di tale rischio o danno le quali, invece, per essere imposte all’intera comunità, devono avere una efficacia ragionevolmente certa.
Infatti, se si fondasse il principio di precauzione su una concatenazione seriale di mere ipotesi astratte o scenari previsionali suggestivamente rappresentati senza alcun argine empirico o statistico, si finirebbe per legittimare l’imposizione all’intera cittadinanza di un qualsiasi tipo di misura restrittiva nella mera eventualità, non provata, che essa possa servire allo scopo di prevenire o minimizzare un danno per la salute pubblica, anch’esso non provato: in tal modo, evidentemente, la discrezionalità della scelta delle misure restrittive si tramuterebbe in mero arbitrio.
Un esempio plastico di scelte arbitrarie e prive di supporto scientifico si rinviene in alcuni capisaldi della normativa emergenziale, su cui si è investito e condizionato la vita sociale ed economica del Paese senza ottenere alcun beneficio in termini di riduzione del rischio e del contagio: si pensi al coprifuoco, ai banchi a rotelle per l’espletamento dell’attività didattica in presenza, al divieto di incontro con congiunti oltre il sesto grado di parentela, al lock down, ai divieti delle attività all’aperto, il divieto di attività sportive e delle iniziative economiche, il fermo della giustizia etc. etc..
Sovrapponendo il principio di precauzione nella sua dimensione naturale relativo alla tutela ambientale, certamente l’impatto con l’utilizzo globale delle mascherine di comunità è risultato tanto grave quanto insostenibile.
Da un importante rilievo della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) del 15.6.2022 è stato calcolato che circa due miliardi di mascherine sono state utilizzate in Italia dalla popolazione scolastica a partire dallo scoppio dell’emergenza Covid-19, cui si aggiungono sedici miliardi di mascherine usate dai lavoratori e una quota stimabile in 28 miliardi utilizzate nel quotidiano nelle varie situazioni indoor e outdoor, per un totale di quarantasei (46) miliardi di mascherine che «sul fronte dell’ambiente, le mascherine hanno avuto un impatto paragonabile a quello di uno tsunami (https://www.ansa.it/ansa2030/notizie/green_blue/2022/06/15/ambiente-sima-uno-tsunami-di-46-miliardi-di-mascherine_1c27d7cb-97f1-40eb-ab0d-de350f26a6d1.html)
L’Oms ha stimato in 3,4 miliardi le mascherine che finiscono ogni giorno nella spazzatura (dato globale), assieme a 140 milioni di kit di test, che hanno il potenziale di generare 2.600 tonnellate di rifiuti non infettivi (principalmente plastica) e 731.000 litri di rifiuti chimici; in uno studio apparso su Environmental Advances si è rivelato come buona parte delle mascherine finisca in acqua (quasi 5.500 tonnellate metriche di plastica ogni anno con una stima ottimistica al ribasso) e come una singola mascherina rilasci fino a 173mila microfibre di plastica al giorno negli oceani, con possibili danni da ostruzione in seguito ad ingestione da parte degli animali acquatici, ed effetti tossicologici dovuti alla veicolazione di contaminanti chimici e biologici (https://scholar.google.it/scholar_url?url=https://www.mdpi.com/1660-4601/17/11/4140/pdf&hl=it&sa=X&ei=ALmNZMfaH-iKy9YP3bOp4A4&scisig=AGlGAw-wDxLRcxNEDQQ0PKeMfUzX&oi=scholarr).
Tornando alla decisione in commento, il giudice militare respingeva anche l’argomento secondo cui l’utilizzo delle mascherine, per essere efficacie nella prevenzione del virus, debba essere fatto “insieme”, “in aggiunta” o “in combinazione” ad altre misure, quali ad esempio il distanziamento interpersonale (così si legge a più riprese sul sito del Ministero della Salute nel commentare le fake news riguardo le mascherine) poiché, così opinando, saremmo innanzi ad valutazione di mera logica “tanto suggestiva quanto falsa. Se le mascherine avessero un’efficacia di protezione dal virus solo in caso di contemporanea presenza ad altre misure, ciò significherebbe semplicemente che l’efficacia protettiva è da attribuire esclusivamente alle altre misure (ad esempio al distanziamento) e non già alle mascherine. In altri termini, se le mascherine avessero una loro efficacia produttiva certa, esse dovrebbero funzionare in comunità proprio in assenza di altre misure, e cioè in luoghi chiusi, affollati, senza ricambio d’aria ed in assenza distanziamento”.
Lo stesso principio di precauzione non potrebbe essere utilizzato per giustificare l’imposizione di restrizioni all’intera cittadinanza – in questo caso l’utilizzo della mascherina – quando le finalità della misura siano “non dette” e diverse da quelle dichiarate dalla norma impositiva, come se attraverso le quali si volesse ingenerare un senso di allarme e di tensione in modo da indurre la popolazione ad una maggiore aderenza ad altre misure obbligatorie o raccomandate: in tale evenienza saremmo evidentemente anche al di fuori del alveo delle pure assai discutibili “spinte gentili” (Consiglio di Stato con la sentenza 20 ottobre 2021 n. 7045), e si tratterebbe piuttosto di misure restrittive illegittime.
Quando si arriva ad affermare che durante un’emergenza sanitaria il principio di precauzione opererebbe in modo inverso e controintuitivo, “allora come in un gioco di specchi riflessi diviene impossibile distinguere la realtà dal suo simulacro” (Trib. Mil. Napoli cit.): sulla base di un principio di precauzione così malinteso, si può giungere a sostenere tutto e il contrario di tutto.
Il principio di precauzione, ad una interpretazione costituzionalmente orientata, giustifica il ricorso a misure restrittive solo nel rispetto dei canoni della ragionevolezza, della proporzionalità, della non discriminazione e della stretta necessità a far fronte ad un rischio od una esigenza concreta, di cui del resto, proprio il TAR del Lazio ne ha richiamato il dovuto rispetto quando dichiarava illegittimo l’art.1 comma 9 lettera s DPCM 3 novembre 2020 impositivo dell’obbligo per i bambini di svolgere attività didattica in presenza solo con l’uso delle mascherine, anche nel caso che potesse essere assicurato il distanziamento (1 Sez., sent. 19.2.2031 n. 2102).
Sempre ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, poi, le misure restrittive adottate in base al principio di precauzione devono rispettare l’intangibilità del nucleo essenziale dei diritti fondamentali riconosciuti a livello universale (art. 3, 3, 8 e 9 CEDU; articolo 52 paragrafo 1 Carta di Nizza), nucleo insopprimibile in quanto incarna la dignità umana, principio fondamentale dello Stato democratico, non comprimibile e non bilanciabile e, meno che mai, barattabile con una indennità.
Da questa disamina potrebbero trarsi due conclusioni di massima entrambe valide a seconda della prospettiva in cui ci si pone: da una parte, la carenza assoluta del potere funzionale di un organo amministrativo, burocratico, del superiore gerarchico o del datore di lavoro di imporre alle persone l’utilizzo delle mascherine, che costituiscono a tutti gli effetti un trattamento sanitario ed una prestazione personale riservata alla volontà della Legge (artt. 23 e 32 Cost.) e, dall’altra, la carenza manifesta di una solida base scientifica che, secondo la costante giurisprudenza, dovrebbe fondare la corretta analisi dei rischi e dei benefici sottesi all’adozione di una misura coercitiva, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura (ex multis, Cons. stato, Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655 che richiama id., sez. IV, n. 1240/2018, Cons. Giust. Amm. Sicilia Sez. Giurisd., n. 581/2015 e Cons. Stato, Sez. V, n. 6250/2013).
Ne consegue che nelle contestazioni penali contenenti la violazione del precetto normativo o amministrativo di indossare la mascherina, non potrà giungersi al riconoscimento della colpevolezza per inoffensività della condotta, e quando la contestazione sottintenda un “ordine” impartito da una qualsiasi “autorità”, la violazione di tale ordine non sarà punibile mentre le condotte ad esse conseguenti saranno giustificate dalla contingenza di una forza maggiore ai sensi e per gli effetti dell’art. 45 c.p.
Nel caso deciso dal Tribunale Militare di Napoli, la forza maggiore che avrebbe impedito al militare imputato di far rientro in caserma – e, mutatis mutandis, al cittadino di fare accesso al lavoro, ai luoghi pubblici o aperti al pubblico – era costituito dall’ordine del Comandante (ma lo stesso vale per l’ordine emesso da un funzionario pubblico o da un datore di lavoro) di consentire l’accesso a condizione dell’uso del dispositivo di protezione delle vie respiratorie, di talché la prestazione pretesa, per quanto illegittima sia, avrebbe di fatto impedito l’accesso o, comunque, avrebbe comportato l’allontanamento del soggetto dal luogo di lavoro.
Allo stesso modo, la responsabilità sarebbe esclusa per le violazioni amministrative dell’obbligo di indossare la mascherina da parte di chi ha commesso il fatto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in stato di necessità o di legittima difesa previsto dall’art. 4 della Legge 689/81, e se “la violazione è commessa per ordine dell’autorità, della stessa risponde il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine”.
Un simile approccio inverte la prospettiva dell’illecito penale, poiché l’illeceità della condotta non andrà più valutata nell’ottica di chi subisce “l’ordine” e disobbedisce ad esso, quanto invece nell’ottica di chi l’ordine lo impartisce, che risponderà in termini generali ai sensi dell’art. 28 Cost., ed in termini penalistici, della violenza privata ai sensi dell’art. 610 c.p. che punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”.
Da un punto di vista materiale e oggettivo, infatti, il delitto di violenza privata ex art. 610 c.p., si configura nel momento stesso in cui siano poste in essere condotte di violenza o di minaccia finalizzate ad imporre alla vittima un facere o un pati (Cass. n. 15715/2012; Cass. n. 3609/2011; Cass. n. 7214/2006), come quella violenza esercitata sulla libertà morale di ogni individuo – intesa come la sua intangibile facoltà di autodeterminarsi secondo le proprie convinzioni e secondo i propri ed autonomi processi motivazionali – per impedirgli fisicamente l’accesso in luoghi pubblici o aperti al pubblico o subordinare tale accesso a prestazioni personali o trattamenti sanitari non espressamente previsti dalla legge.
In questi termini, l’obbligare taluno a indossare la mascherina contro la legge per esercitare un diritto riconosciuto dall’ordinamento, coartando la libertà morale e di autodeterminazione individuale, costituisce una violenza idonea a configurare il delitto ex art. 610 c.p. laddove si costringe la vittima a “fare” qualcosa (tenere una particolare condotta), “tollerare” l’ingerenza altrui ed “omettere” l’esercizio di proprie prerogative.